Tutto quello che non so di mio padre

1

La prima immagine che mi sovviene è attraversata da un muro alto tra il Bosco Reale e la campagna, lungo una strada in fondo alla quale ci sono palazzine che pochi anni addietro erano ancora masserie. Tre strade si incontrano sotto gli occhi di una Maria Ausiliatrice in un’edicola sbiadita che ha perso parte della sua cornice.

Qui un ragazzetto vende i fiori che ha raccolto con altri. Luigino è uno stecco con gli occhi vispi e le orecchie troppo grandi. Quando si china per offrire i fiori ai passanti, esibisce ginocchia nude e lisce come due capuzzelle esposte alla devozione nel cimitero delle Fontanelle.

Su quella stessa strada, qualche anno dopo, chi si sveglia all’alba potrebbe incontrarlo, mentre scende da Miano, correndo lungo quel muro troppo alto, al di sopra del quale si intravedono appena le cime degli alberi.

Sulle scale di Capodimonte la vista si spalanca, non ci sono ostacoli, anche se il cammino è ancora lungo. Il ponte della Sanità è un passo obbligato, poi ci sono cento vicoli e vie per giungere alla bottega del pastaio ai Tribunali, dove Luigino fa il garzone e dove impara a far di conti mettendo le cifre in colonna. Ma si suppone che debba ancora trascorrere del tempo prima che gli mettano in mano un lapis.

In principio sono soprattutto consegne al seguito di signore che devono sembrargli tutte belle e altezzose. ln nome di un antico prestigio perduto, esse hanno sostituito il servitore di casa con il garzone del pastaio che al pari di tutta la figliolanza del dopoguerra ha l’espressione triste anche quando è contento e l’espressione contenta anche quando è triste.

Qualcuna delle signore gli rivolge un rimprovero, ogni tanto, per il piacere sadico di smuovere un po’ di sangue su quella faccia troppo pallida e smunta. Chissà quanti scaloni e portoni e androni e corridoi angusti e giardini abitati da statue diroccate, in un saliscendi che continua incessante fino a che non giunge il comando: posala pure qua, la roba.

È troppo timido per aspirare a una mancia, o il pastaio glielo avrà proibito. In questo caso sarà pure accaduto, almeno una volta, che egli abbia trasgredito. Con il soldo stretto in tasca avrà atteso che la giornata finisse e sarà corso a perdifiato, a casa, e avrà faticato a prendere sonno, in un angolo dello stanzone, sognando come spendersi per i fatti suoi quel tesoro di Montecristo.

2

Miano è un fiume di basoli che scorre tra argini compatti, interrotti qua e là da vicoli affluenti, è un fiume che rallenta in un’ansa, mai diventata piazza.

Gli odori confluiscono in un solo sentore che permane nell’aria a tutte le ore del giorno, l’effluvio ristagnante di cose già mature e sempre prossime a marcire. Esala dalle merci esposte, dalle crepe dei palazzi, dalla biancheria sospesa alle finestre, dall’epidermide, dai capelli.

Qui, dove mai nulla accade per la prima volta, alcuni balconi sono così in alto che appartengono al cielo, altri così in basso da stampare un rettangolo d’ombra sempiterna sulla insegna della bottega sottostante.

Ora, però, bisogna cancellare qualcosa, un muro, l’angolo di un palazzo, l’ingresso a un cortile e poi erigere un tumulo di pietre, una montagna di calcinacci e piantare cristi che puntellano, perché devono pur esserci macerie, se c’è stata la guerra.

Così come bisogna immaginarsi che ogni accadimento, ogni tragedia, un incidente mortale di cui sia vittima una bambina, l’improvvisa follia di un brav’uomo che è uscito fuori dai panni suoi, un litigio da ingigantire di bocca in bocca, debba avere per fondale, sul quale fu già dipinta tante volte la medesima scena, proprio quell’ansa, mai diventata piazza.

Si gioca sudando, i bambini corrono dietro alle carrozze, perché le carrette con la frutta sono lente e le rare autovetture, quando incedono, spingono i passanti contro i muri.

Anche il sangue gioca correndo e continua a mescolarsi. Nessuno si stupisce del colore troppo scuro del figlio della “Caffettera”, dei suoi capelli troppo crespi, del naso camuso e il broncio deforme, così come nessuno si stupisce degli occhi chiari e dei capelli biondi sulle tempie diafane di altri bambini, forse il lascito di stupri remoti, ormai dimenticati, che furono perpetrati da soldataglie straniere e affamate.

3

Una volta la madre di Luigino fu convocata a scuola dal maestro.

Non sappiamo se ciò sia accaduto anche altre volte. D’altra parte, ogni accadimento nella vita di ciascuno, piccolo o grande che sia, è irripetibile perché, anche se si ripete, non è mai identico se non a sé stesso.

Proviamo a riesumare l’episodio con la pretesa di fissarlo per iscritto: lo incorniciamo, affinché l’immagine non strabordi e si dilegui perdendo la sua già esile consistenza. 

Dovremmo depurare l’episodio di tutte quelle qualità che ne hanno fatto un aneddoto: l’ironia e la tenerezza con cui mio padre lo ricordava appartengono al suo punto di vista di uomo adulto. È il sollievo della distanza con cui amiamo raccontare un’esperienza ormai consegnata al passato e che non ha più alcuna conseguenza sul presente.

Il fatto si colloca cronologicamente tra il ’38 e il ’39. Riguardo al mese, potrebbe essere aprile o maggio, giacché la convocazione da parte del maestro riguarda una stravaganza del bambino rispetto alla sillabazione.

Vogliamo figurarci che la madre – si chiama Maria Gaetana – accompagni il bambino a scuola, in quel giorno di primavera inoltrata.  Potrebbe essere accaduto che si sia presentata in classe nel corso della lezione. In questo caso il maestro sarà uscito fuori, nell’androne, e gli scolari, tra i quali Luigino, non avranno assistito alla conversazione. Per cui la prima a narrare poi l’episodio sarà stata la madre, di ritorno a casa.

Nella prima ipotesi abbiamo un pubblico, più o meno silente, che partecipa all’azione. Nella seconda ipotesi, oltre la porta socchiusa abbiamo una scolaresca che rumoreggia, qualcuno alla lavagna che segna i buoni e i cattivi. Ogni tanto il maestro apre la porta alle sue spalle per intimare il silenzio e, insieme alla luce dei finestroni che evade dall’aula, il registro sonoro si attutisce.

Non abbiamo bisogno di descrivere gli scranni impolverati di gesso e graffiati, né abbiamo bisogno di sottolineare che sulla parete dietro alla cattedra sono appesi i ritratti del re e del duce, a meno che non vogliamo attribuire alla figura del maestro un’autorevolezza che derivi dall’appartenenza organica al regime. Potrebbe bastare appendere alla faccia dell’insegnante un paio di baffi, curatissimi, con le punte all’insù. Così come ci riserviamo di descrivere altrove le fattezze della madre. Accontentiamoci di specificarne la figura minuta, lo sguardo ceruleo e la bocca sottile, tutti elementi che ci servono per abbozzare il suo atteggiamento deferente.

– Signora, vostro figlio mi insolentisce.

– Ma chi, Luigino? Che cosa ha fatto?

– Quando lo chiamo a leggere, dice “chiavallo” in luogo di “cavallo”, e “chiarretta” in luogo di “carretta”.

– Non sa leggere?

– Tutti ridono. “Dividi in sillabe, Luigi”! “Chia – val – lo!”

– Non vi vuole mancare di rispetto. Ora che torniamo a casa mi sente. Ma pure a casa dice: ‘o chiavallo cu’ ‘a chiaretta. È un bambino. Non lo sa dire.   

Abbiamo messo nel dialogo più parole di quante probabilmente ce ne siano state e  tra la madre e il maestro abbiamo posto una distanza che è pura convenzione narrativa, forse anche retorica. Mio padre, quando raccontava il fatto, riportava la conversazione in italiano. Forse obbediva anche lui a una convenzione narrativa che rendeva più spiritoso l’episodio.

– Signo’, vostro figlio me sfotte.

– Ma chi? Luigino? C’ha fatto?

– ‘O guaglione dice “chiavallo”, apposta ‘e dicere “cavallo”.

– Nun ve sfotte. Pure a casa dice accussì. È ancora criatura. 

Nel racconto dell’aneddoto non si fa menzione di alcun senso di mortificazione nella risposta della madre e Luigino, quando legge “chiavallo”, sembra ridere con gli altri, benché il maestro debba arrabbiarsi tanto.

Non c’è la preoccupazione di Maria Gaetana che sulla strada del ritorno si chiede se il problema che suo figlio ha con la sillaba “ca” sparirà con l’età, e non c’è la vergogna che prova Luigino quando tutti gli altri ridono. Forse nella realtà non ci sono mai state, né l’una né l’altra, ed è il maldestro tentativo di rievocare il passato che infila tra le righe un groppo di amarezza: siamo noi che troppo tardi ci mettiamo a lustrare le lapidi.

Alla fine non decidiamo nulla, non possiamo decidere nulla: non ammazziamo il fatto per cucinarlo. Ci teniamo l’aneddoto che è la sola verità possibile e sorridiamo.

4

Ultimo di sei figli, Luigino porta lo stesso nome del padre.

Dobbiamo credere che si fosse esaurita ogni fantasia onomastica, che non ci fossero altri parenti a rivendicare l’omaggio del rinnovo, o che la consuetudine di chiamare il figlio con il proprio nome rientrasse nel perimetro dell’autorità paterna, nella pretesa di plasmare una replica di sé da far vivere oltre i limiti del tempo che ci è concesso su questa terra. O ancora, dopo cinque figli per i quali il nome era stato scelto d’imperio dall’uomo di casa, questa volta fu sua moglie a chiedere che il nuovo nato si chiamasse “Luigi”, facendo così intendere al marito che non ci sarebbero state altre gravidanze: sono finiti i nomi, sono finiti i figli.

Questa posizione eccentrica che Luigi di Luigi condivide come ultimo con sua sorella Rafilina, di appena un anno più grande, lo obbliga a una costante divaricazione cronologica dettata dalla convivenza famigliare: la propria infanzia coincide con la giovinezza matura dei fratelli.

Quando Luigi di Luigi frequenta le prime classi del Regno, gli altri hanno già intrapreso la propria strada, forse già sanno che cosa vogliono dalla vita, poi l’entrata in guerra livella le aspirazioni di ciascuno verso l’unica aspirazione di tutti: sopravvivere.

Con che profitto Luigi di Lugi frequenti il brevissimo e unico intervallo della sua vita tra gli scranni della scuola, possiamo desumerlo da scarni elementi, recuperati per lo più quando ormai Luigi di Luigi è Luigi fu Luigi.

La grafia, innanzitutto, che è sicura, persino elegante, con i tratti tutti ugualmente inclinati verso destra, e che si allungano decisi, arrestandosi sempre alla medesima altezza. Ci sarà stato un momento, da giovane, in cui egli si sarà seduto a un tavolo e si sarà esercitato, depurando le lettere da ogni tondeggiamento e ghirigoro infantile. Né è dato sapere se sui banchi abbia imparato i primi rudimenti del disegno. Più probabile che egli abbia sviluppato una qualche abilità sul lavoro, con amici, frequentando una fidanzata o seguendo i progressi scolastici dei nipoti.

Luigi fu Luigi, ogni tanto per gioco, disegnerà due soggetti, sempre gli stessi: una testa di angelo tra due ali e un treno in corsa con la scocca ridotta a un cilindro in assonometria. La fermezza della mano riscatta l’ingenuità dell’impianto compositivo, ma ai miei occhi di bambino, scampato al destino di essere Luigi di Luigi fu Luigi, quei disegni, sempre gli stessi, avranno le sembianze di un traguardo inarrivabile.

5

Ritagliamo la figura di Luigino da una vecchia fotografia di quando era ancora un bambino, la sola rimasta. L’espressione cupa e l’aria inquieta devono attribuirsi al sacrificio di mettersi in posa insieme ai fratelli per il ritratto di famiglia.

Incolliamo la figurina su un foglio bianco e diamo così allo spaesamento di Luigino una giustificazione più radicale. Sul foglio affiora il profilo lieve delle colline che si ripetono, una dietro l’altra, poi un filare di cipressi, gli orti protetti da mura rosse e il campanile solitario di una chiesa. L’aria densa è trafitta dai raggi del sole – ci piacerebbe vederlo, questo spicchio di sole, nell’angolo superiore del foglio. La luce avvolge le cose, come a Miano, tra le cortine che si fronteggiano sul fiume di basoli, non accade mai.

Siamo a Sinalunga, in Toscana, dove la famiglia di Luigino, negli anni della guerra, è stata trasferita. Sono “sfollati”, anche se la guerra è dappertutto, non solo a Napoli.  A Sinalunga ci sono fornaci per costruire mattoni: il padre e Ciro, il fratello più grande di Luigino, erano operai in una fabbrica di mattoni anche a Napoli. Forse è questo il motivo del trasferimento.

Del viaggio non abbiamo notizie, possiamo supporre che sia stato avventuroso e che sia stato vissuto dall’ultimo di famiglia con eccitazione puerile, stipando nella parola “eccitazione” tutta la vasta gamma delle emozioni, dalla curiosità alla paura. O forse il precipitare degli eventi rende questo viaggio un accadimento tra gli altri, strappandogli il sigillo dell’eccezionalità che vorremmo per ragioni romanzesche attribuirgli.

Il treno, i vagoni, la gente ammassata, i bagagli, le masserizie di fortuna, lo sferragliare continuo, i “quando arriviamo?”, la consapevolezza o meno delle distanze, il paesaggio che muta, la stanchezza e il sonno. Possiamo supporre questo e altro ancora.

Non è più interessante il paesaggio famigliare, in una circostanza simile? L’espressione spaurita nella sola fotografia che conserviamo di Luigino ci suggerisce allora di isolarne lo sguardo mentre spia segnali d’incertezza sui volti della madre e dei fratelli, sul volto severo del padre che per un momento dismette lo sfarzo della sicumera e della disinvoltura ostentate in altre occasioni fino ai limiti del disprezzo. Per addomesticare la bestia della paura, Luigino pensa che tutti gli altri sanno certamente dove stanno andando e che cosa li aspetta. Così si rassicura.

Il cambio di scena determina i comportamenti e forza la resistenza di vecchie abitudini. Ai vicoli e ai cortili sostituiamo i sentieri e l’aia, alla città che precipita verso il mare, sempre troppo lontano, sostituiamo l’aperta campagna.

A sera qualcuno si ritira troppo tardi, dormono tutti assieme come nello stanzone a Miano, ma qui siamo in una cascina alle spalle della chiesa, il che rende più facili e silenziose le fughe.

Eppure i rapporti con il vicinato sono buoni, non c’è diffidenza, se non quella reciproca. Rafilina, la sorella di poco più grande, è quella che si ambienta meglio, si fa ben volere, tanto è vero che potrebbe restare lì per sempre, a Sinalunga, presso una famiglia che vorrebbe crescerla come figlia sua.

Insomma è l’idillio. Così almeno si fissano nel ricordo i giorni dell’esilio. Eppure la fame e l’indigenza ci sono, anche se poi sono esorcizzati nella forma dell’aneddoto, ancora una volta.

Ci sono galline che razzolano, o meglio ce n’è una, che da uova fresche tutti i giorni, e ci sono sempre un paio di uova anche per i bambini che vengono da Napoli. Inutile chiedersi se sia meglio un uovo oggi o una gallina domani, perché il domani arriva comunque e la gallina finisce in brodo. Il brodo più buono che gli sfollati abbiano mai mangiato da molto tempo, mentre i vicini si chiedono che fine abbia fatto la gallina.

6

Prima che Luigino faccia ritorno a Napoli subito dopo la guerra, riavvolgiamo il nastro e montiamo un telo provvisorio sul quale proiettare una pellicola più antica, da cinema muto, con primi piani allumati e cartelli incorniciati da ghirigori vanamente pretenziosi, come si conviene all’adattamento di un romanzo d’appendice.

La madre di Luigino, Maria Gaetana nata Pennino, resta orfana di entrambi i genitori quando è ancora bambina. La famiglia è benestante e le lascia in eredità un piccolo patrimonio che ella potrà ricevere solo al compimento del ventunesimo anno. 

L’indigenza dei tempi di là da venire metterà sotto una lente questa dote, ora ingrandendone le proporzioni, ma sempre come di un tesoro perduto, ora rimpicciolendone la consistenza, come di un’ingiustizia subita.

Sul cartello che accompagna la sequenza in cui la bambina siede sulle ginocchia della zia che di lei si prende cura, leggiamo la sentenza di ossimorico effetto: fortunata nella sfortuna.

Tuttavia la primavera di Maria Gaetana è la stagione di un bocciolo sull’estrema punta di un ramo già interamente fiorito.

Per i parenti di origine, piccoli imprenditori della Napoli di inizio secolo, sul matrimonio di Maria Gaetana pesa il sospetto di non essere un buon affare.

Con banale simmetria potremmo scrivere sul cartello successivo: sfortunata nella fortuna.

L’allore tremulo, nel primissimo piano, indugia sugli occhi liquidi, sulle sopracciglia sottili che si inarcano in un atteggiamento di quieta dolenza, sul naso affilato tra le pinne cesellate, sulla bocca sottile e sul mento sfuggente, s’impiglia tra le onde dei capelli divise sulla fronte bassa, balugina sui pomelli degli zigomi che tendono la pelle chiara e traslucida: Maria Gaetana è un cameo incastonato in un metallo duttile solo in apparenza, un metallo che potrebbe ossidarsi.  

Ed eccolo, mentre si muove a scatti e si fa strada tra i graffi che piovono sulla pellicola l’uomo che diventerà suo marito, Luigi.

Sfida e batte tutti i pretendenti in una sequenza di duelli successivi, in una filata di numeri da sceneggiata.

Si è avventurato fino ai sobborghi della metropoli, intanto che cancelliamo strade e quartieri, soppiantandoli con pezzi di campagna e di terra incolta, che allontanino Napoli dai suoi casali vicini, tra i quali Piscinola. Perché è da lì che proviene il fidanzato, anche se tra le quinte urbane l’uomo sembra trovarsi perfettamente a suo agio.

Nel passaggio dal muto al sonoro, Luigi emancipa la scontrosità da osteria per una spavalderia da caffè e, quando sul telo compaiono le sagome del regime, non perde occasione di sbeffeggiare pubblicamente i custodi del nuovo ordine.

Non lo fa per sete di giustizia, né in nome dell’onore, ma per il gusto di disprezzare e smascherare le pose autoritarie di uomini che secondo lui non hanno alcuna autorità tranne quella della divisa che indossano.

Quando minacciano di dargli la purga, non arretra, si presenta impettito e la spunta. Non c’è punizione. Vince lui, eroe per un giorno, giusto il tempo di girare la pellicola.

Non ammetterebbe mai che anche lui ha santi in paradiso, che i parenti di sua moglie, alcuni dei quali occupano ruoli di riguardo nel nuovo regime, lo considerano soltanto una pecora nera.

7

A Napoli le nottate non passano mai.

Nell’attesa si mangia, si sogna, si fa l’amore, si piscia contro un muro, si accendono candele, mentre altre candele si spengono: lo sfrigolio nella pozza di cera somiglia all’ultimo rantolo e al primo vagito.

Tutti recitano il copione del dopoguerra, non accorgendosi di improvvisare sul canovaccio di dominazioni già vissute.

Quando Luigino torna a Miano con la famiglia, trova impalcature che impediscono altri crolli, sono le stesse impalcature per le nuove costruzioni.

I ponteggi eludono la propria natura precaria diventando paesaggio, montando una maschera che si crede provvisoria sulla verità che non ha bisogno di ostensioni: il tempo è sempre uguale a se stesso, nascita e morte coincidono.

Ora che la guerra è finita, si nasce e si muore di nuovo, come sempre.

Il padre e i fratelli di Luigino trovano lavoro nei cantieri, si sporcano le mani e, a fine giornata, non si chiedono che cosa ne sarà di loro: domani comunque qualcosa accadrà.

Maria Gaetana sa leggere la mano e confeziona guanti in casa.

Non ci sono più le tessere. Non deve più correre da un capo all’altro della città per poter spendere, lontano dalla curiosità del vicinato, le tessere che ha in soprannumero grazie a un cugino che può vantare amicizie ai piani alti.

Dopo qualche anno Luigino smette di essere un adolescente che si arrabatta con piccoli mestieri. Lo ritroviamo in un cantiere, dove lavora come manovale. Ora è come suo padre e come i fratelli, anche se è sempre il più piccolo, ed è forse questa la sua fortuna. 

A Miano ci sono i compagni, c’è il bar, c’è il cinema. Oltre il fiume di basoli, oltre l’ansa mai diventata piazza, oltre la città che precipita da Capodimonte verso il mare, la prima giovinezza di Luigino è la scoperta di nuove coordinate geografiche.

Non sappiamo chi gli abbia insegnato il mestiere, sono tanti i nomi che sono irrimediabilmente perduti nei ricordi di questa prima peregrinazione zingaresca, quando da semplice manovale diventa stuccatore.

Un solo episodio ci resta nella memoria.

Dovendo fare dei lavori in un convento di clausura, il capomastro raccomanda la massima discrezione. E’ vietato incrociare le monache nel corso dei lavori. D’altra parte il convento ha regole rigidissime. Una scampanellata preannuncia l’arrivo degli operai, il che dà modo alle monache di rinchiudersi nelle proprie celle e di non farsi vedere. E invece accade il contrario: ogni volta che la campanella suona, le monache escono tutte fuori.

8

Una donna si sta spogliando nella sua camera da letto, l’inquadratura si restringe sulla mano che fa scivolare una spallina della sottoveste. Poi il campo si allarga, vediamo per un attimo la donna attraverso la finestra e un treno passa veloce in primo piano. I vagoni sfrecciano sferragliando, uno dietro l’altro, e tutti restano con il fiato sospeso maledicendo la lunghezza del treno. Quando anche l’ultimo vagone esce dal campo e il fumo si disperde sulle rotaie, la finestra è ancora lì, ma la luce è spenta.

La delusione degli spettatori monta in sghignazzi e in urla di disapprovazione. Il bello è che qualcuno non demorde e aspetta lo spettacolo successivo, sempre lo stesso film. Dovrà pure accadere che il treno passi davanti alla finestra una manciata di secondi più tardi, o che attraversi lo schermo prima che la luce sia stata già spenta, così da poter sbirciare le grazie della signora.

Dubitiamo che questo fatto sia realmente accaduto e che mio padre ne sia stato testimone. È presumibile che faccia parte di quelle storielle che si raccontano per ridere, esagerandone di volta in volta i dettagli. C’è di vero l’ingenuità degli spettatori che vanno al cinema, quando il cinema è ancora una novità, e che sembrano disposti a credere a tutto.

Intanto facciamo sedere Luigino tra i ragazzi che si consumano gli occhi e sorvegliano i palpiti puberali, protetti dalla penombra della sala che nasconde sudori e rossori. A Miano il Cinema Europa offre per poche lire l’esplorazione visiva dei corpi, l’escursione temporale e geografica, un ponte illusorio per guadare il fiume di basoli: ogni proiezione è un’evasione collettiva. E poco importa che Luigino sia evaso per davvero, che sia Luigino solo quando torna a Miano, giacché, lontano da casa, nei cantieri dove esercita il mestiere di stuccatore è soltanto Luigi.

Dal cinema mio padre, come molti della sua generazione e della sua condizione sociale, impara tutto ciò che è necessario sapere. Conosce la storia dell’impero, anche se Roma è un set di cartapesta coloratissimo con il David di Michelangelo tra le statue che adornano il Colosseo. Sa che Nerone ha incendiato la città e poi ha accusato i cristiani. Quando vuole ammonirci sulla perfidia di qualcuno, evoca i nomi di Tigellino, di Bruto o di Messala. Conosce i comandamenti, perché Kirk Douglas rovescia le tavole della legge davanti al vitello d’oro, e sa che la moglie di Lot è diventata una statua di sale perché si è voltata a guardare la pioggia di fuoco su Sodoma e Gomorra.

Così, nel lessico famigliare, insieme ai proverbi entrano battute tratte dai film che assurgono al rango di sentenze morali. Siamo in una casa di vetro, non lanciamo sassi. 

Un giorno, a via Partenope, vede la Bergman che esce dall’Hotel Vesuvio. Passeggia da sola, elegantissima, ed è alta, molto alta, ma sembra una donna triste, forse perché è scappata dallo schermo e il sogno si è infranto.  

9

Il rullo delle macine sul pietrisco che stride, lo strappo ruvido delle sacchette e gli scossoni ripetuti sul bordo della betoniera per farvi scivolare il cemento, gli scrosci d’acqua per ammorbidire l’impasto, i colpi di martello sulle mascelle che chiudono le casseforme, il raspo metallico della cazzuola nella “cardarella”, gli schiaffi di calce suonati sui muri di tompagno con studiata virulenza e, ancora, i comandi urlati per sovrastare il frastuono generale.

Prima che il sole sia sparito del tutto, l’ultimo bagliore impone il silenzio che, sul lido, ha il suono del mare. Il Grand Hotel Majestic è ancora uno scheletro di cemento, un tratteggio arancio che trascolora nel viola del crepuscolo, i piani dei solai, così avveniristicamente aggettanti, si assottigliano e sembrano curvarsi nella sera incipiente.

Ora nel cantiere non c’è più nessuno. Mentre la polvere ricade lenta e invisibile, le pozze d’acqua diventano macchie. Qualche operaio, prima di andare via, si è liberato della canottiera e l’ha appallottolata sulla nuca per sciacquarsi in piedi, reggendo la canna.  Nessuno si azzarda a scendere sulla spiaggia. Fa troppo freddo per tuffarsi, o almeno così pensa chi ha poca confidenza con il mare. Seppure facesse caldo, si scoprirebbe che molti degli operai non sanno nuotare: vengono dall’entroterra campano. Sporchi di calce, si avviano verso la stanza presa in affitto. Un piatto caldo consumato intorno a un tavolo di fortuna, una bevuta e una partita a carte. Ma Ischia è pur sempre un luogo di villeggiatura, anche se la stagione è lontana. I più giovani si avventurano sul corso, guardano le ragazze, entrano in un bar, simulano una vacanza che non potranno mai fare.  

Per amore di verosimiglianza, rifuggo dalla tentazione di infilare tra i pensieri di Luigi, lo stuccatore, l’idea che un giorno possa stabilirsi a Ischia. Per ora non c’è la prospettiva di mettere su famiglia in un luogo che deve solo sembrargli un posto diverso da tutti quelli dove ha già lavorato, perché è un’isola e il mare è un margine meno valicabile di una montagna.

Così come sarebbe pretestuoso figurarselo nei momenti di riposo, con i compagni intorno a un bivacco da Far West, l’aria malinconica e lo sguardo nel vuoto, che poi è il suo modo di guardarsi dentro, quando diventa una impenetrabile statua di sale. È ancora così giovane e le inquietudini non possono essere sopraffatte dalla forza vitale, dalla voglia di rivalsa, dalla spensieratezza. Tanto più che ha già messo qualcosa da parte e può concedersi il lusso di spendere, qualche volta, soprattutto quando il sabato torna a Miano, così può dimostrare che Luigino ce l’ha fatta.

E il sabato viene. Tutti lo guardano, mentre cammina lungo il fiume di basoli. Qualcuno lo saluta con imbarazzo, altri parlottano tra di loro e lo indicano con gli occhi. Già vede la fontana, all’angolo dello spiazzo risucchiato dal portone di casa, e gli sembra che si faccia il suo nome, Luigino.

Tutti sanno che suo padre è morto, hanno partecipato alle esequie e hanno pesato l’anima del defunto, enumerandone misfatti e prodezze. Solo lui non lo sa, non può saperlo.

Hanno provato ad avvertirlo, ma Ischia è un’isola, lontana, esotica. Non sono stati capaci di mettersi in contatto con il figlio più piccolo e questi a chi gli chiedesse il nome risponderebbe ancora Luigi di Luigi e non Luigi fu Luigi.

10

Da bambino le parole di mio padre erano sempre rassicuranti perché vere. Non che avesse motivo di imporre le sue ragioni, ai miei occhi era nel giusto a ogni occasione, anche se parlava poco. Non avevo la possibilità di vederlo al lavoro, di incontrarlo nel corso della giornata perché era lontano, a Napoli.

A sera lo aspettavo con mia madre sul porto. Dal finestrino della macchina spiavo il portellone del tragetto che si abbassava e sulla punta, come in un atterraggio lunare visto a rallentatore, la sua sagoma sparuta e salda planava distinta tra le altre: era sempre il primo a sbarcare. Ogni giorno veniva da un altro mondo e questo lo rendeva speciale.

A cena raccontava a mia madre la sua odissea quotidiana e la mia immaginazione ingigantiva pericoli e meriti, appiccicava facce strappate dalla televisione e dai fumetti alle persone che lui frequentava e i loro nomi si fissavano nella mente, ciascuno come archetipo riassuntivo di una singola qualità, buona o cattiva, una maschera da commedia o una divinità dell’Olimpo.

Non ricordo il momento in cui ho pensato: su questa cosa mio padre sbaglia. Né saprei dire quando ho avuto il coraggio di incominciare a guardarlo come un uomo tra i tanti e non solo come mio padre. Il che mi porta a chiedermi quando Luigino, l’ultimo di sei figli, abbia guardato per la prima volta il padre con occhi da adulto e non più da bambino, o attraverso gli occhi degli altri, fossero anche quelli di sua madre.

Quando Luigino è adolescente, nell’immediato dopoguerra, suo padre è già avanti negli anni, è in un’età nella quale un uomo, a meno che non sia artefice di un clamoroso colpo di testa, non fa che ripetere gli stessi errori, ma senza particolare inventiva.

Di ben altro stile erano stati i suoi errori di gioventù.

Dopo il matrimonio, investe la dote della sposa in un’attività: mette su una fabbrica di gassosa, si illude di stare al passo con i parenti della moglie, ma inciampa. La fabbrica viene svenduta – per inciso gli acquirenti sono quelli della futura e fortunata gassosa Arnone. Tutto da rifare.

Trova lavoro nell’impresa del Risanamento, ai Quattro Palazzi, salvo poi licenziarsi, o essere costretto a farlo per oscuri motivi che si riveleranno meno gravi e compromettenti di quanto la sua reticenza in famiglia faccia credere.

In ogni caso sembra sia meglio cambiare aria.

Parte per l’Abissinia, c’è un impero da costruire e per le costruzioni c’è bisogno di manovalanza. L’avventura dura il tempo di raccogliere aneddoti a sufficienza con cui vantarsi a Miano, tra una bevuta e l’altra, e infastidire i parenti della moglie compromettendo l’immagine del regime anche nelle colonie. 

Le rare volte che mio padre parlava di suo padre, usava un tono bonario e scherzoso che faceva pensare a un’intima riconciliazione, motivata anche dalla certezza di essere riuscito a evitarne il modello. Ogni tanto, però, si percepiva l’eco di un turbamento, di una sofferenza indicibile, tra gli scampoli dei discorsi lasciati a metà.

L’unica volta che ho visto mio padre piangere, non commuoversi, ma piangere per davvero, è stato quando è morto l’uomo per il quale ha lavorato da imprenditore edile per una vita intera, e allora ho capito che cosa significa scegliersi un padre.   

11

L’arcangelo corre in scena e si arresta, sollevando in alto la spada. Le ali fissate sulla schiena ondeggiano, quasi sul punto di staccarsi, l’elmo piumato scivola in avanti sulla fronte, la visiera si conficca sulla radice del naso. L’equilibrio precario dell’insieme rischia di compromettere l’effetto che si vorrebbe suscitare, lo stupore. A stupirsi sono solo i diavoli che, come da copione, cadono a terra, facendo risuonare le catene con minacciosi rimbombi sulle tavole legno.   

Luigino è così smilzo che non fa nessuno sforzo: le gambe sollevate per aria e tutto il peso concentrato su una spalla con un braccio piegato a gomito, dopo essersi dato lo slancio. Crescendo il corpo conserva questa magrezza, scapole e giunture si appuntiscono, la pelle si allenta senza che vi sia mai un’ombra di vera pinguedine, ed è per la leggerezza dello scorzo più che per il vigore dei nervi se egli può ripetere la “caduta del diavolo” anche da adulto, per divertire noi bambini.

Non ha mai recitato sulle tavole del palcoscenico, tanto meno nel ruolo di diavolo nella Cantata dei Pastori, da ragazzo frequenta per qualche tempo il teatro amatoriale a Miano. Mi racconta della magnificenza scenografica di un allestimento da “malinconico autunno”, in cui dal graticcio cadono le foglie e lui è tra quelli che le lancia.

E dei concerti che si allestiscono nell’ansa mai diventata piazza, in occasione di una qualche festa rionale, ricorda Sergio Bruni agli inizi della carriera. Il repertorio e il suo modo di cantare, sommesso e da fine cesellatore, non scaldano la platea e il cantante, piccato, esclama al microfono: “Povera voce mia, dove sei finita!”. Subissato dai fischi, l’artista deve lasciare precipitosamente la scena, ma consegna al lessico famigliare una sentenza da usare quando si vuole esprimere con mal celata ironia il personale rincrescimento per un qualche merito che si pretende e che non è riconosciuto. 

“Povera voce mia, dove sei finita!”

Crescere a Miano vuol dire spostarsi lungo il fiume di basoli e risalire la corrente, dalla Parrocchia al cinema, dal cinema al bar, dal bar alla sezione di partito. Negli anni in cui il partito comunista comincia a conquistare parti di città, Luigi fu Luigi è già Masto Luì. Ha una sua impresa edile e le cose devono essersi messe per il meglio, se può permettersi di promuovere e finanziare una squadretta di calcio locale, battezzata “Stella rossa” con chiara allusione alla mitologia sovietica di quegli anni. È evidente che il partito rosicchi all’oratorio spazi di ricreazione e non so quanto mio padre sia consapevole dell’operazione. Fatto sta che la squadra perde tutte le partite, eppure le sconfitte sono tutte ugualmente festeggiate con prodigalità.

Se vogliamo ubbidire al luogo comune, chi è sfortunato al gioco, è fortunato in amore. Mia madre è la terza Anna Maria nel catalogo delle conquiste amorose. Ma questo è un altro capitolo della storia.

12

A bordo di una otto e cinquanta Fiat, che voglio immaginare bianca, faccio finta di sedermi accanto a Luigi in una qualunque giornata dopo il lavoro, quando smette i panni del capocantiere.

Nella vettura l’aria è satura di acqua di colonia, la sua, quella di sempre: Roger & Grallet, Paris.  Ne ha messa troppa, come fanno sempre i giovani in libera uscita.

Meno male che il finestrino dal suo lato è completamente abbassato. Una mano è ancorata al volante, l’orologio pende un po’ largo sul polso e un leggero movimento dell’avambraccio, ogni volta che sterza, fa tintinnare il cinturino con un suono appena percettibile.

L’altra mano è, invece, libera, sporge con tutto il braccio all’esterno, così le folate di vento spazzano via l’odore pungente. La schiena aderisce al sedile, Luigi ha la vista buona e non ha bisogno di sporgersi sul cruscotto quando deve svoltare a sinistra o a destra. La macchina gli ubbidisce.

Mi rendo conto che non riesco a mantenere la promessa. Devo ancora una volta cancellare, con disperata accuratezza per non lasciare tracce abrasive.

 A mio padre, nell’atto di guidare, attribuisco la ferma sicurezza di anni di esperienza e forse è necessario resuscitargli una vena d’impazienza, anche se ha già raggiunto i trenta, mentre il piede pigia sull’acceleratore, tanto più che le strade sono tutte libere, e le salite, così come le discese, sono sangue che circola e pulsa nelle vene, batte alle tempie e infiamma il lucore epidermico ereditato dalla madre.

Se fossimo al centro, gli farei imbucare una di quelle stradine segrete, nascoste tra le quinte di cartapesta dei palazzi, una di quelle stradine labirintiche che ti rivelano l’esistenza di un’altra città, invisibile, sottesa al sistema arterioso esibito sulle cartine.

Mi sembrerebbe di tornare sempre allo stesso posto, perso ogni riferimento, per poi ritrovarmi altrove, completamente ignaro del tragitto, e stordito, leggendo sul profilo di mio padre la soddisfazione di avermi sorpreso ancora una volta.

È la sua città, non è la mia.

Altro è l’itinerario, quando provo a figurarmi i percorsi di svago della sua piena giovinezza. Seguiamo l’orlo centrifugo del ventaglio collinare, dalla Doganella, dove ha costruito alcuni appartamenti, al Frullone, dove l’ariosità delle campagne è costantemente aggredita dalle ombre della boscaglia, e poi su per i Camaldoli fino al Vomero, l’altra Napoli che guarda il golfo e volta le spalle alle palafitte di cemento che vorrebbero essere ancora Vomero e, invece, sono già periferia.

Tradisco il bianco e nero per i colori accesi della polaroid, gli faccio indossare una camicia a righe verdi con il collo alto aperto sul petto e pantaloni color ruggine. Parcheggiamo la otto e cinquanta, e usciamo.

Dove andiamo? Con chi?

Non so nulla dei suoi compagni, dei suoi amici.

Non un nome sopravvive ai compagni di quel tempo, solo quello di qualche operaio, o quello di un committente particolarmente facoltoso.

C’è il nome di un ragazzo di Miano, uno dei tanti che ha assunto per qualche tempo nella sua impresa edile.

È un ragazzo che suona e che vuole fare il musicista.  Cerca qualcuno che lo lanci, almeno così ripete a tutti. Mio padre quel ragazzo lo ha visto crescere e spesso sul cantiere lo prende in giro, forse per risparmiargli una possibile delusione. Ma James Senese non si lascia scoraggiare e un giorno farà strada.

13

La voce s’inerpica, sale di tono e prolunga la vocale in un gorgheggio rauco.

La canzone di Fausto Leali è il successo del momento.

L’operaio si riaggiusta sulla testa il fazzoletto annodato ai quattro angoli, zuppo di sudore. Si stringe nelle spalle, come a darsi la spinta, prima di spalancare le braccia e allargare il torace per dare forza alla voce.

“A chiiiii…”. Non fa in tempo a riprendere fiato per continuare, perché c’è sempre qualcuno che spezza l’esibizione e risponde a tono.

Le risate interrompono quella che potrebbe sembrare la sequenza di uno dei tanti musicarelli che si girano a Ischia negli anni Sessanta ed è, invece, solo l’ultimo dei fotogrammi sgranati che la fantasia incolla uno accanto all’altro nella pretesa impossibile di essere spettatore al primo incontro tra mio padre e mia madre.

Luigi è di nuovo sull’isola dopo tanti anni, questa volta nelle vesti di capocantiere e non di semplice stuccatore al servizio di altri. L’impresa è ormai cresciuta e conta molti operai. Di alcuni, le gesta mi accompagnano fin dall’infanzia, nelle cronache da romanzo cortese con cui si narra la fondazione della nuova cittadella. Il Villaggio dei pescatori è un complesso di appartamenti destinati alla villeggiatura, in prossimità della spiaggia. 

Assieme all’operaio con la passione per il canto si staglia la figura massiccia di un omone, la cui forza è pari alla sua bontà, e accanto ai due la sagoma sfuggente di un terzo operaio, furbo e calcolatore, un Gano traditore che subirà, però, il giusto castigo, giacché si vuole che l’amore trionfi.

Provo ad avventurarmi su per la salita dell’Arso, calandomi nelle vesti di un osservatore di quegli anni e confidando nei miei ricordi di bambino. Sul lato sinistro una sola automobile parcheggiata, la otto e cinquanta di Luigi, e sulla destra, tra quello che sarà il Villaggio e il muro che costeggia il marciapiede, un orto coltivato a lattuga, posto a livello del mare, un appezzamento rettangolare che poi diventerà campo da tennis e infine giardino con piscine per un albergo del luogo.  

Prolungo questo appezzamento fino alla spiaggia, conservando per quinta la cortina di casupole lungo vico Ulisse che caracolla seguendo l’estrema propaggine di lava rappresa. Si conficcano i pali per le fondazioni ed è tutta questione di ascolto. A ogni colpo gli operai si arrestano. Attendono il suono sordo, il segnale che il palo ha raggiunto lo strato più duro.

Allargo il campo per includervi un’altra immagine, che si compone in primo piano, e cioè i fogli del progetto, disegni che ho visto da ragazzo ripiegati in un cassetto tra le cose di mio padre. Su questi fogli un giovane architetto, non ancora laureato, sta annotando nuove varianti, ancora correzioni e ripensamenti, sotto lo sguardo perplesso di Luigi, il capocantiere, che già pensa a come realizzare l’ennesimo capriccio: una finestra a forma di oblò, una volta a fazzoletto, una colonna dal fusto eccessivamente panciuto, un caminetto in forma di bottiglia.  

A sera, qualche volta, mentre siedo al tavolo in cucina dopo aver finito i compiti, mio padre afferra un foglio e fa lo schizzo di una moresca, una finestra dal profilo trilobato, o disegna la sezione di un camino, confidandomi il segreto del tiraggio perfetto. Io ricopio per il suo e il mio piacere, e allora siamo felici, ciascuno ancora all’altezza delle aspettative dell’altro.

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Il cantiere del Villaggio dei Pescatori, con le sue incastellature, i pilastri in erezione, le mura di contenimento, e il brulicare continuo degli operai al lavoro, invece di una cittadella in costruzione finisce per somigliare a una cittadella stretta da assedio.

Per dare una sistemazione a tanti operai, per farli alloggiare e assicurare a ciascuno il vitto, occorre un’organizzazione complessa alla quale Luigi, come capocantiere, soprintende ed è forse questa funzione, più che la direzione dei lavori, ad assicurargli prestigio presso gli abitanti dell’Arso.

Se potessi ascoltare le chiacchiere che si fanno sul suo conto, di certo saprei di lui più di quanto la convivenza di quasi quaranta anni mi abbia concesso, almeno per quel che riguarda la sua giovinezza. Potrei annuire con gli altri quando si dice che è generoso, e adombrami in solitudine quando con una significativa alzata di spalle si aggiunge che lo è fin troppo.

È un uomo nel pieno del suo vigore, sempre in movimento, instancabile, e, anche se ha già passato i trenta, è ancora scapolo. Il fisico asciutto, da mingherlino, lo fa sembrare più giovane di quanto non lo sia. E il fatto che diriga un cantiere, al servizio di un committente facoltoso, – tutta gente che viene da fuori, tutti “forestieri” -, deve accrescere il suo fascino di baciato dalla fortuna, giacché si fa sempre fatica a riconoscere semplicemente i meriti altrui.

In una fotografia in bianco e nero, – non so dove sia finita- , scattata qualche anno più tardi, Luigi, già padre, è appoggiato al cofano della otto e cinquanta. La macchina è parcheggiata nel senso opposto a quello di marcia sulla mulattiera che sarà poi la strada trafficata dove abito ancora.

Ha le mani strette nelle tasche, i pantaloni attillati sul bacino e leggermente svasati alla caviglia, un maglioncino a “vu” e un giacchino leggero. Sorride, i capelli a spazzola e le orecchie un po’ troppo grandi, anche per colpa della sfumatura alta. Non sorride all’obbiettivo, guarda fuori dal campo della fotografia. In questa piena giovinezza, è così che guarda Luigi, guarda altrove, guarda lontano, perché crede nel futuro e perché sente di appartenere al suo tempo.

Faccio un piccolo artificio e alla destra di questa fotografia, in direzione dello sguardo di Luigi, accosto una fototessera di mia madre: gli occhi severi e l’aria scontrosa di uno scatto “ufficiale”, contraddetti da un’onda ribelle sulla fronte, di cui, però, si sarà presto pentita. Non ha ancora diciotto anni, ha lasciato la ragioneria cogliendo l’occasione di un’ingiustizia scolastica per abbandonare gli studi. Avrebbe voluto frequentare l’Accademia di Belle Arti, ma suo padre glielo ha proibito: troppo dispendioso vivere a Napoli, e poi una ragazza, tutta sola, dove si è mai visto?

Annamaria lavora da un parrucchiere giù al Porto, dove nei momenti liberi legge il giornale e le riviste che sono a disposizione delle clienti e impara qualche parola di inglese e di tedesco, visto che il francese lo ha studiato a scuola. Un giorno lava i capelli a Soraya, che nessuno ha riconosciuto e che è in vacanza a Ischia in compagnia di Maximilian Schell.

Ha scansato un paio di corteggiatori, messi sul suo cammino dai familiari. Il pomeriggio dà una mano nella bottega di suo padre, Nerone, che oltre a fabbricare mobili, tra le altre cose vende anche reti da letto.

Per pure ragioni romanzesche, ma senza allontanarmi troppo dal vero, correggo la frase precedente, sospettando che Annamaria vada ogni pomeriggio nella bottega perché il capocantiere Luigi deve comprare reti da letto per sistemare i suoi operai. Non ne compra una, ne compra tante, ma non tutte assieme. Così può tornare da Nerone, fino a che non si lancia in una domanda che potrebbe sembrare compromettente e chiede ad Annamaria: ma voi li avete ventun anni?

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Nel buio che precede il sonno, la giornata appena trascorsa e quella prossima si frantumano in diapositive scontornate e sbiadite che si mescolano susseguendosi senza ordine, soprattutto quando si è preoccupati, e Luigi il capocantiere si rigira nel letto, oppure si spegne d’improvviso per la stanchezza e le immagini che vorrebbero accendersi sono solo l’eco della spossatezza che si disperde come una molla tesa che si scarica.  Tra una diapositiva e l’altra decido di inserire ripetutamente un’espressione di Annamaria che abbandona la consueta fisionomia volitiva mentre si volta e accenna un sorriso.

Superati i trenta, non so se Luigi si guardi attorno in cerca di una donna da sposare, se senta il bisogno di accasarsi, rispondendo magari alle ambasce della madre, Maria Gaetana, che invecchia alla luce del balcone aperto sul fiume di basoli mentre si tormenta per il futuro del più piccolo dei suoi figli.

Il fatto che tutti si stupiscano, quando Luigi e Annamaria escono allo scoperto e si fidanzano, mi porta a credere che mio padre si sia innamorato di mia madre, che non l’abbia scelta seguendo un piano prestabilito o semplicemente perché sentisse che fosse giunto il momento di mettere la testa a posto.  

Che cosa avrà di speciale questa Annamaria, a parte la giovanissima età, rispetto alle altre?

Ancora oggi mia madre non ama farsi riprendere, sfugge all’obbiettivo, e in tutte le fotografie della sua adolescenza non sorride mai, se non con una forzata accondiscendenza. Pur soppesando il valore della circostanza, e cioè che quando si fa fotografare, si mette in posa, c’è per lei un colore dietro tutti gli altri, il coraggio, che solo chi non la conosce bene può scambiare per dura ostinazione, così come per Luigi quel colore primario è il candore che non ha nulla a che fare con l’ingenuità.  

Dopo l’ennesima rete da letto acquistata dal capocantiere per i suoi operai, alla domanda “ma voi ce l’avete ventun anni?”, mia madre annuisce con la testa, evitando una risposta chiara e impastando la verità con una mezza bugia perché comprende il valore della richiesta.

Non ce li ha ventun anni e per lei non è un problema la differenza di età, semmai è il contrario, ma capisce che il capocantiere fa sul serio perché per sposarsi occorre avere almeno ventun anni.

Ha ragione lei, il fidanzamento durerà meno di un anno e suo padre dovrà dare il consenso per iscritto.

Il primo appuntamento è un appostamento concordato. Il sabato Annamaria va da una zia che abita a Sant’Antuono per aggiustarle i capelli. Sulla mulattiera Luigi parcheggia la otto e cinquanta e aspetta di darle un passaggio e riportarla giù alla Mandra.

Mia madre scende per la mulattiera. Il foulard annodato sotto al mento secondo la moda del tempo, le faccio indossare un vestito verde smanicato, anche se siamo ancora agli inizi della primavera, sotto un soprabito lilla, un trench che lei si stringe in vita con un fiocco sul fianco e che nella mia memoria di bambino solo le donne belle come mia madre possono indossare. E poi c’è un profumo, inconfondibile, una scia di lacca che Annamaria si porta sempre appresso.

Nei giorni della primissima infanzia, gli occhi e il naso poco al di sopra del tavolo enorme che occupa per intero la sala da pranzo a casa della nonna, vedo sfilare tutte le donne di famiglia in attesa di farsi sistemare i capelli.

Il sabato del Villaggio ha questo intenso profumo di lacca e di shampoo e ha il suono della ventola nel casco per asciugare i capelli, munito di asta e di rotelle, di spessa plastica beige, come i caschi degli astronauti che si vedono in televisione. 

Il profumo dei capelli si imprime nella memoria come il segreto più nascosto della femminilità e della seduzione.  

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Le tovaglie a quadretti, i bicchieri a campana che piantonano una brocca da mezzo litro sul cui orlo è dipinta la cresta di un gallo e il becco giallo, i tovaglioli ripiegati a triangolo, le sedie con il fondo di paglia intrecciata: le pizzerie somigliano ancora a modeste trattorie, anche quando, il sabato sera, la clientela non è quella solita e comprende, oltre a qualche turista, famiglie e comitive di amici.

Le porte del locale sono aperte e lasciano entrare, appena di poco attutiti, i rumori della strada: il chiacchiericcio del passeggio estivo, le rotelle delle carrozzine, le risate senza motivo dei ragazzi che mangiano il gelato e, ancora, lo strombazzo di una lambretta che fa lo slalom tra i passanti.

Con un fittizio e lento movimento di camera, sorvolo sugli avventori e inquadro in un angolo della sala Luigi e Annamaria che parlottano fitto fitto guardandosi negli occhi. Prendo in prestito il ricordo di una cara insegnante che, un giorno, parlando dei miei genitori, mi raccontò di averli visti in una pizzeria di Ischia Ponte. Lei, sposata da poco, era in compagnia di suo marito e, guardando la coppia in fondo alla sala, aveva osservato che quei due dovevano essere proprio innamorati. 

Di che cosa parlano? Del futuro? Di quel che vogliono essere?

Se voglio provare a ricomporre un’idea dell’entusiasmo con cui si preparano ad affrontare la vita in comune, devo per paradosso separarli.

Per mia madre devo isolare la vitalità curiosa di cui sono testimone nei primi anni di vita, come quando, per esempio, compra all’edicola una rivista per signore e io aspetto che l’abbia letta per immergermi in quelle cronache di vita vissuta e riconoscere nelle illustrazioni il suo modo di disegnare. Devi distorcere la linea se vuoi dare stile alle figure, continua a ripetermi, mentre abbozza su un foglio di quaderno un profilo di donna con il collo allungato e la linea sinuosa della spalla.

Quando il fidanzamento è ufficiale, diventa subito argomento di discussione, soprattutto per la differenza di età. Annamaria deve mettere a tacere qualche voce scomposta, anche tra le sue amiche e i familiari. Se coglie un’allusione malevola, risponde a tono e non sopporta di essere trattata come una ragazzina.

In contrasto con la sua ostinata caparbietà le impongo il passo incerto che deve essere il suo incedere sul cantiere, simmetrico all’imbarazzo ossequioso dei carpentieri, degli operai che cercano di darsi una sistemata. Disarmo la consueta spavalderia con cui si danno di gomito quando adocchiano una ragazza.

Eppure c’è una parola di troppo, un complimento untuoso che suona come un’offesa da parte di chi non ha ancora compreso che questa ragazza è diversa dalle altre, o forse proprio perché lo ha capito crede di trarne motivo di vanto.

Luigi viene a conoscenza del comportamento inopportuno.

Non fa scenate, non alza la voce, ha imparato dal cinema i tempi perfetti di una sceneggiatura a effetto.

Non licenzia l’operaio, ha la pazienza di aspettare che giunga il momento di rinnovargli il contratto e non lo fa.

L’altra faccia del candore di Luigi è questa gelida pazienza dell’attesa. Anzi, proprio perché c’è il candore, la vendetta non può darsi se non nella forma della nemesi, seguita dalla battuta laconica, recitata con pacatezza e a bassa voce, una sentenza strappata al momento culminante di un film in cinemascope.

Quanta sofferenza si nasconde dietro il miracolo di un simile controllo di sé?

17

Sulla spiaggia, fuori stagione, ci sono tre giovani, due uomini e una donna. Dai loro abiti e dal modo con cui si guardano attorno è facile dedurre che non siano del posto. Nel girovagare appaiono e scompaiono tra i cabinati e le barche tirate a secco. Li vediamo dalla finestra che dà sul balcone, a casa della nonna. Giacché nessuno, se non nella bella stagione, si attarda in riva al mare, la cosa ci incuriosisce e ci diverte.

Tutti si aspettano che i tre, prima o poi, facciano il bagno. E difatti posano le borse. I due uomini si calano i pantaloni, dopo essersi liberati delle camicie, del tutto ignari di essere osservati. Vengo allontanato dai vetri perché sono un bambino, mentre si fanno allusioni che capisco solo in parte.

Siamo nel pieno di una di quelle commedie scosciatissime degli anni Settanta e la scena, la cui visione diretta mi è proibita, posso figurarmela ascoltando i commenti e le reazioni dei miei zii e di mio padre.

La nonna prova inutilmente a smorzare l’effervescenza pruriginosa, sostenendo che dopo tutto non c’è nulla di male. Non c’è verso, anche perché la donna, che non vuole spogliarsi davanti ai due uomini nonostante le loro insistenze, crede di trovare riparo sul retro di una cabina e così finisce per offrire le sue grazie direttamente al pubblico assiepato dietro ai vetri del balcone.

Il Sessantotto a Ischia non c’è, se non nella testa di qualche studente e di qualche giovane che si sforza di guardare al di là del mare, ma i forestieri ogni estate incantano i locali con tutta una serie di stravaganze, tollerate, e di rado incoraggiate, perché appannaggio esclusivo di chi viene in vacanza. I pochi che frequentano con assiduità i forestieri si compromettono, soggetti al sospetto e all’invidia.

Altra cosa è l’esuberanza seduttiva della gioventù maschile che di ordinanza concupisce prede straniere da esibire come trofei di caccia. 

Eppure nelle abitudini qualcosa sta cambiando, lo specchio delle tradizioni si incrina.

Annamaria, prima del matrimonio, vuole rinunciare alla consuetudine dell’apprezzo. In casa della futura sposa si espongono i pezzi di corredo perché tutti possano “apprezzare” la dote. Tuttavia sua sorella, la più grande, si è sposata da poco più di un anno e già tutti commiserano sua madre che ora deve provvedere alla dote anche per lei.

Povera donna! Ora c’è quest’altra figlia, così giovane, che si è incaponita e vuole maritarsi per forza, e chissà perché poi tanta fretta! Ma le sta bene, visto che sicuramente dovrà arrangiarsi con la dote!

Per non dare adito ad altre chiacchiere, Annamaria deve cedere e mettere in mostra il corredo perché tutti ne possano saggiare la consistenza. 

Un’altra delle abitudini che non si possono trascurare è quella di prendere informazioni sul futuro sposo e sulla sua famiglia, tanto più che Luigi, il capocantiere, viene da fuori.

Si organizza una missione, capitanata dal padre di Annamaria, Nerone, che in compagnia del figlio più grande, Raffaele, si reca a Napoli.

Non so se qualcun altro faccia parte della spedizione, ma sulla presenza di Raffaele credo che pesi il fatto che egli ha sposato una ragazza di Villaricca, presso Giugliano, e che, perciò, conosca l’entroterra meglio di altri.

Nella sacrestia della chiesa affacciata sull’ansa mai diventata piazza, il parroco che conosce tutti fa un ritratto a tinte fosche della famiglia di Luigi fu Luigi. Descrive senza alcuna clemenza una serie di personaggi che sembrano usciti da un feuilleton, o da un romanzo di Dostoevskij, tutti umiliati e offesi, esclusa ogni possibilità di redenzione.

La parola del parroco semina lo sconcerto. Che cosa fare?

Avrei voluto chiedere a mio padre quale sia stata, all’epoca, la sua prima reazione, ma non ne ho avuto mai il coraggio. Ha forse visto sulle facce di Nerone e degli zii l’ombra del dubbio, al di là delle parole di circostanza? Come si è sentito?

Mi siedo accanto a lui, ne scruto il profilo severo, come quando in altre occasioni si pietrifica rimuginando. Cerco sul volto i tratti gentili del bambino che vendeva fiori all’angolo della strada, la fisionomia dell’innocenza ferita in assolvenza sulle immagini che scorrono al contrario e che ci riportano al fiume di basoli dove tutto ha inizio.

Mio padre è straniero e lo sarà sempre.

Rivendicherà con orgoglio questa sua condizione, anche quando avrà trascorso a Ischia più della metà della sua vita. In famiglia, su questa sua patente di “straniero”, ci scherzeremo spesso, pur sapendo che egli ha ragione. Mi basta incontrarlo a Napoli quando sono studente per capire che egli appartiene alla città, completamente libero di muoversi e di agire.

Affronta il Don Abbondio di turno e chiede spiegazioni, con meno veemenza di Renzo, ma con maggiore freddezza. Il parroco ritratta balbettando, dice di essersi confuso, ha preso un abbaglio e credeva che si parlasse di altri.

È palesemente in cattiva fede.

Noi possiamo accontentarci di questo lieto fine da Promessi Sposi, così come ci è stato sempre raccontato, una specie di favola.

Interrogandoci sui motivi che hanno spinto l’uomo di chiesa a mentire così spudoratamente, ci sono due opzioni: egli prova risentimento nei confronti di Luigino e della sua famiglia oppure non vuole che un “buon partito” sposi una ragazza di Ischia invece di accasarsi a Miano.

18

Di Luigi fu Luigi conservo due oggetti che provengono dalla sua giovinezza: un libro in due volumi, Il Conte di Montecristo, e un’opera in quattro dischi a settantotto giri, Il Trovatore.

Questi oggetti hanno per me il valore di un’eredità, rappresentano il suo lascito personale, tanto più che essi, sulla soglia dell’adolescenza, mi hanno introdotto a due grandi passioni che però non erano le sue, di mio padre, e cioè l’amore per la letteratura e, attraverso l’opera lirica, l’amore per il teatro. 

Quando una persona cara non c’è più, le cose che gli appartennero, soprattutto quelle di uso quotidiano, restano orfane del contatto e dei gesti che a queste davano vita. Utilizzate di nuovo, nel passaggio di mano, un’altra vita le attende, mai dimentica della vita precedente.

Il romanzo e i dischi, anche se entrati in mio possesso quando Luigi fu Luigi è ancora vivo, ora sono reperti sui quali indagare sotto una luce nuova per sapere qualcosa di lui.

In cerca di prove indiziarie, devo spostare gli oggetti dal luogo in cui la memoria li colloca quando ne richiamo l’immagine.

I due volumi del romanzo spiccano sullo scaffale, stretti tra l’enciclopedia e i libri che leggo da bambino.

Il dorso imita una severa rilegatura in pelle, così in contrasto con il dorso colorato degli altri libri: Ben Hur, La fonte meravigliosa, Le avventure del Barone di Munchausen, La figlia del Capitano, I pattini d’argento.

Per molto tempo Il Conte di Montecristo ha questa sola funzione, separare l’enciclopedia da tutto il resto. Non avendo illustrazioni al suo interno, è destinato agli adulti. Nessuno lo apre, nessuno lo legge.

Ignoro se Luigi abbia ricevuto il romanzo in regalo o se lo abbia comprato, magari perché incuriosito dopo aver visto il film. Suppongo che i due volumetti facciano il loro ingresso nello stanzone di Miano sotto lo sguardo perplesso di Maria Gaetana che tuttavia benedice l’intrusione, giacché la loro presenza è segno di futilità, e quindi di nuovo benessere, quel benessere di cui è artefice l’ultimo figlio, il solo che ancora scapolo vive con lei. 

Un giorno, a letto con la febbre, sono abbastanza grande da non lasciarmi scoraggiare dalle pagine fitte e dai caratteri minuti. Leggo Il Conte di Montecristo con una voracità entusiastica che cresce di pagina in pagina, come solo da ragazzi può accadere.

Oggi che Luigi fu Luigi non c’è più, il romanzo di Dumas mi parla di lui, della sua voglia di riscatto e dei pericoli di una generosità più volte tradita, perfino della fiducia ostinata in un inaspettato colpo di fortuna che poi, quando giunge, colpo di fortuna non è mai, se premia lo sforzo e la fatica.

Giorni di smarrimento si alternano a ripartenze prodigiose, mio padre, al pari di Edmond Dantès, sembra padrone del tempo, fino a che dal tempo non è sopraffatto, e l’immane stanchezza che lo investe sul cammino verso la fine è la resa all’idea che non ci saranno altre ripartenze, benché egli faccia ancora mostra di crederci.

I quattro dischi a settantotto giri condividono con ellepì comprati dopo il matrimonio lo spazio esiguo accanto al giradischi. Quest’ultimo è riposto all’interno del lungo buffet che occupa una intera parete del soggiorno. 

Seduto sul pavimento a gambe incrociate, la testa tra le portelle aperte e gli album sparsi intorno, imparo a individuare sul disco della terza parte il punto preciso in cui Manrico canta la cabaletta “Di quella pira”. La scena è illustrata sulla copertina: il tenore in proscenio solleva la spada, alle sue spalle esili bifore in stile gotico inquadrano il fondale che si accende di bagliori rossastri.

La puntina cricchia saltellando sui solchi, prima di correre sul vinile e far partire lo zumpappà degli archi.

Luigi fu Luigi è più interessato alla trama che alla musica. Mi ripete a memoria le battute dell’agnizione finale, quando la zingara Azucena rivela al Conte di Luna l’insopportabile verità sul conto di Manrico, mandato a morire.

“Egli era tuo fratello.”

Che cosa lega Luigi fu Luigi alla vicenda di Manrico? I quattro dischi a settantotto giri sono corpi estranei nella collezione di canzoni napoletane e di successi degli anni Sessanta. Perché proprio Il Trovatore?

Intuisco la traccia di una commozione particolare, ogni volta che, da bambino, mio padre mi racconta la trama fosca della sola opera lirica che egli conosca.  

“Egli era tuo fratello.”

Chi è questo fratello? Faticosamente metto insieme scampoli di conversazioni orecchiate dai miei genitori facendo finta di non capire. Ritorno a qualche oscura allusione lasciata sospesa. Ora so.

Suo padre, quando da giovane lavorava ai Quattro Palazzi, fece un regalo al capocantiere che non poteva avere figli, un regalo tanto desiderato quanto inaspettato, e per questo dovette licenziarsi, o forse più brutalmente fu licenziato.

Questo il segreto impronunciabile e che tradisco, dopo tanti anni, solo per onorare lo sgomento di Luigi fu Luigi che prese su di sé la colpa del padre, sperando in una impossibile agnizione decisa dal destino: chissà che qualche volta, per le strade di Napoli, il sangue non ribolla e dica: “Egli era tuo fratello”.

19

Il sole sfavilla sulle pareti azzurrine della stanza. Se volessi osservare le convezioni narrative dovrei rannuvolare i cieli e obbligare i vetri delle finestre al tambureggiare di una pioggia fitta e insistente, perché so che questo è l’ultimo giorno in cui siamo insieme.

La luce folgorante con cui la primavera si annuncia e si insinua fin dentro alla tua culla di ospedale mi ferisce. Mi ferisce la sua pretesa di distrarmi e di allontanarmi da te.

È il mio turno, gli altri giungeranno, sono solo. Potrei lasciarmi sovrastare dai pensieri e diventare una statua di sale, come sai fare tu. Mi sono preparato all’attesa. Non mi aspetto che tu ti agiti, che ti risvegli dal sonno, che faccia di tutto per liberarti dalla mascherina dell’ossigeno. Provo a calmarti, ti parlo, ti rimetto la mascherina, tu te la togli di nuovo. Non hai più peso e la forza sorprendente con cui mi opponi resistenza mi disorienta, mi allarma. È dunque combattendo che dobbiamo accomiatarci?

Dici parole sconnesse, a occhi chiusi, sillabando nello sforzo di farti capire. Ti rispondo cercando parole di rassicurazione. Mi parli di un “serraglio”, scandendo le frasi in italiano, con il tono di uno scolaretto che dal proprio banco si rivolge al maestro.

Che cos’è questo “serraglio”? Non ne so nulla. Ti rifuggi in un’infanzia senza tempo a cui non posso accedere e ti plachi.

Il primario entra nella stanza e mi dice severo: lei è consapevole della gravità della situazione.

Fingo di saperlo, anche se da giorni, a ogni colloquio, mi ripete la stessa cosa.

Mi mette davanti un foglio. Se non voglio che ti intubino, devo firmare. Non c’è molto tempo, devo decidere. Sono solo.

Chiedo al primario: Lei cosa mi consiglia?

Mi risponde con una severità ancora più ferma. Non può dirmi nulla. Spetta solo a me la decisione.

Non voglio che tu soffra. Firmo. Depongo la penna e stendo la mano sul tavolo. Le dita mi fanno male. 

Mi si deve leggere in faccia quello che provo, se il primario si sente in dovere di sedersi al tavolo. A bassa voce: ora che ha firmato, glielo posso dire. Anche io con mio padre ho fatto così.

Sono così stanco e non posso seguirti, ripensando a quella parola scandita, forse proferita in luogo di un’altra, “serraglio”. Non posso seguirti, non ora, mentre corri, uno scricchiolo con le orecchie troppo grandi, lungo il muro alto di Capodimonte verso il fiume di basoli che non c’è più.

Vorrei urlarti: che cos’è questo serraglio? A chi hai dato il primo bacio? Quando è che hai pensato di metterti in proprio? C’è stato mai un compagno del cuore, uno di quelli a cui voler assomigliare in tutto, quando della vita non si sa ancora niente? Quando hai avuto paura, paura per davvero? La prima volta che ti sei innamorato? Di chi? E quel giorno, quel giorno preciso in cui ti sei detto: ce l’ho fatta? Tuo padre te l’ha mai fatta una carezza?

Non puoi ascoltarmi, continui a correre, sempre più distante.

Ora sei una macchia informe, indelebile.

FINE

i miei genitori

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Kleenex

L’ho trovata seduta sul letto, tra i kleenex accartocciati. Non l’ho sentita piangere, ma a un certo punto ho mollato le cuffie e c’era uno strano silenzio in casa. L’ho chiamata dal corridoio, non mi ha risposto e così sono entrata. Mamma!
Non ha provato neanche a ricomporsi, anzi ha cominciato a singhiozzare più forte. Ci risiamo, mi sono detta, o forse l’ho detto ad alta voce, tanto lo stesso non mi avrebbe sentito. Le ho passato un braccio sulla spalla e lei si è lasciata andare contro il mio petto, anche se sono piatta come una tavola da surf. Ho tirato su una gamba per farmi forza e non cascare tra i kleenex.
Questa volta è finita.
Lo dici sempre.
Non mi faccio trattare più così.
Sembrava Didone abbandonata e ho pensato che con tutti quei kleenex avremmo potuto farci una bella pira e chiudere lì la faccenda. Ma il fidanzato di mamma non somiglia a Enea, non ha la pietas, anzi, a sentire mia madre, non ha proprio nessuna pietà. Anche se lei ingigantisce un po’ le cose. Mario, il mio moroso, certe volte lo manderei a cagare però poi facciamo la pace, perchè faccio in modo che mi chieda scusa se mi ha fatto qualche torto.
Quando ero piccola credevo che i grandi non avessero sentimenti. Qualche volta li vedevo litigare, arrabbiarsi, anche disperarsi. Ricordo quando papà è andato via di casa. Ma credevo che non facessero cazzate per amore. Quelle cose le vedi solo in televisione.
Io e Mario stiamo bene insieme, ma io non farei cazzate per riprendermelo, se lui mi tradisse. Lo manderei a cagare e basta. L’anno prossimo lui finisce le medie, e sarà più difficile vedersi. Se dura, dura. Non mi metto certo a frignare nei cleanex, non gliela do tutta questa soddisfazione.

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Bambini

Natale

Ce n’è uno di cera, lucido, le carni bianche, ginocchia e piedi arrossati; un altro ha gli occhi chiusi e dorme sul fianco, le braccia unite a partire dai gomiti nascoste dalla testa; quello coi riccioli, intagliati nel legno, come vermi sul capo di Medusa; quello a occhi aperti, le pupille di vetro, lo sguardo nel vuoto, sotto la coltre dei merletti bianchi; quello di fattura dozzinale, che incrocia le gambe, sollevandole, e le braccia aperte a croce; quello di plastica, minuscolo, di un solo colore, i tratti appena sbozzati dal calco; quello d’ispirazione etnica, con il corpo ridotto a un tronco, mani e piedi enormi, sprofondato nel sonno.
Tanti bambini nelle vetrine dei negozi, sullo scaffale del supermercato, nelle campane dell’antiquario, nelle teche delle chiese. Troppi bambini, finti, a Natale.

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Natale ai tempi di Facebook

In quel tempo, il cielo era una striscia blu, come sempre. Il mondo era una sola home, con tante finestre attraverso le quali sbirciare un angolino del vasto impero di Zuckerberg. Non c’erano eventi, strano a dirsi, né compleanni da festeggiare, quel giorno. Poi d’improvviso, a tutti gli uomini di buona volontà, giunse la notifica. Accanto all’iconetta della torta con la candelina comparve un nome, “il bambino”. ” Ma non sapevo di averlo tra gli amici!” qualcuno esclamò. “E dire che se non c’è nome e cognome, col cavolo che do l’amicizia! Ora lo cancello!”. Sul profilo del “bambino”, una sola foto, un selfie, un autoscatto con il flash. S’intravedevano, alle spalle del neonato, le corna di un bue e le lunghe orecchie di un asino. Qua e là pezzi di una grotta. “E’ nato il sovrano bambino, Alleluja!” recitava la didascalia sulla pagina dell’evento. “Natale” doveva essere davvero un evento fuori dall’ordinario, se tutti gli account, ma proprio tutti, erano stati invitati a “partecipare”. Sicuramente c’era uno sponsor dietro tutta la faccenda, uno sponsor importante. Qualcuno s’intenerì, qualcuno si commosse, qualcuno protestò. Per tutta la notte fu un tag continuo. Ci fu anche chi, risentito e invidioso di quel profilo diventato virale, provò a guastare la festa. Circolò un virus che aggredì profili innocenti di altri bambini e li distrusse. Il mondo era cambiato. Facebook non sarebbe mai stato più quello di prima. Anche per chi di quel “bambino” gli importava poco o nulla.

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Un breve tratto di strada

C’è tanta gente e la strada ondeggia: le voci rimbalzano confuse tra le cortine delle facciate sempre più lontane e gli alberi sono scarabocchi contro la luce dei lampioni troppo alti. Inciampo, una spalla mi ostacola, l’indecisione ha il suono di parole smozzicate, dette o ascoltate. So che ci sei anche tu, forse più avanti, o più dietro, faccio di tutto per dimenticarmene. La luna dorme da qualche altra parte, stasera. Penso a domani, a dopodomani, a ieri, pur di non essere qui.
E invece eccoti al mio fianco. Ora ti ascolto, con gli occhi a terra, come so che stai facendo tu, perché non abbiamo neanche bisogno di guardarci, noi due. Ora ti parlo.
Non saprei dire se sono io ad accordare il mio passo al tuo o se, al contrario, nel raggiungermi, lo abbia fatto tu.
Senza segreti e senza fingimenti, è semplice dirsi ciò che si pensa e in altre circostanze la cosa mi spaventerebbe: una sciocchezza di cui ridere o un’aspirazione mai rivelata prima e adesso pronunciata ad alta voce, solenne e perentoria.
Poi mi saluti, in modo così sbrigativo, come solo in una telefonata interrotta, una di quelle telefonate che si facevano un tempo, quando si aveva l’impressione di poter ascoltare all’altro capo il tonfo della cornetta sull’apparecchio.
Mi lascio cadere su una panchina. La fiumana scorre ineluttabile davanti a me. La luna dorme ancora da qualche altra parte. Un breve tratto di strada può diventare un lungo tratto di vita, come solo nei sogni, mi dico, mentre già non sei più.

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Aluzza dint’ ‘o paese d’ ‘e meraveglie

Aluzza sbatteva ‘a coda ca pure sott’acqua faceva cauro e se schiattava. Facenno accussì, s’alluntanaje troppo, pecché ‘a coda, quanno si’ pesce, nun te serve sulo pe’ te sciuscià, ma pure pe’ te movere, e scioscia a ‘ccà, scioscia a llà, Aluzza se perdette.
L’acqua aveva cagnato culore, s’era fatta nera cchiù nera d’a ‘gnosta ca caccia ‘o purpo quanno s’appaura. “Vuò vedé ca è già scurato notte e nun me ne so’ accorta?” facette Aluzza.
Po’ vedette ca ‘o mare ferneva e manco male ca s’arrestaje a tiempo, ca pe’ poco nun deva ‘na capata ‘nfaccio ‘o muro ca le steva ‘e rimpetto!
“E chisto è ‘no scoglio” dicette Aluzza.
“Ma è ‘no scoglio ca nun fa patelle” rispunnette ‘na voce dinto ‘o scuro.
“Chi si’?” l’addimanaje Aluzza.
“Viene cchiù vicino, nun pozzo alluccà!”.
Mo se sape comme so’ l’aluzze, so’ ‘ntrechere, e propeto pecchè so’ ‘ntrechere, ‘o mmeglio fernesceno ‘nturtiera. Lesta, muvette ‘a coda e s’accustaje e fuje sciorta d”a soja ca se pugnette.
“Ahia, me so’ fatta male” chiagnette Aluzza.
“E nunn è colpa mia” rispunette ‘a voce, mortificata.
“E comme si spuntuto!”
“E tu vuo’ credere a chello ca se vere? Chi me sape, sape pure ca ‘a dinto so’ muollo e sapurito”!
Manco fernette d’o dicere ca ‘no curtiello l’afferraje e ‘o facette fa ‘nu zumpo fore.
Accussì ‘o riccio scumparette e Aluzza penzaje “E te sapeva pure ‘o curtiello, ca si si’ buono è sempe meglio ca nunn’ ‘o faje sapè!”. E se ne jette.

da Aluzza dint’ ‘o paese d’e maraveglie

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Buio

Verrai a cercarmi, un giorno.
Farò scivolare nella tasca il pacchetto di sigarette e mentirò. Ho smesso di fumare ormai da tempo, dirò con sufficienza sperando di leggerti in faccia lo stupore.
Poi ti farò accomodare: la bocca che si tende nel sorriso, le spalle piccole, gli occhi liquidi e malinconici, e sotto la maglietta la piega lunga del torace come una carezza ripetuta per troppo amore.
Sarò commosso perché il tempo ti avrà risparmiato.
Ti lascerò nel disagio, così da prenderti in giro per non farti capire che sto male, che sto ancora male per non averti saputo dimenticare.
Tu mi dirai: smettila, coglione. E sarà tutto finito. Buio.

 

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Ciao Valentina

Valentina aveva venti anni.
In compagnia di poche amiche, fino a pochi mesi fa, era ancora possibile vederla prendere il sole, incurante degli ammiratori che con il passare del tempo erano diminuiti. Forse tutta quella curiosità la innervosiva, ma che facesse sfoggio di una certa aggressività era ciò che la maggior parte degli uomini, a prescindere dall’età, si aspettavano da lei: il prezzo dell’avvenenza, come succede per quelle femmine di carattere che spesso si sentono dire dallo spasimante di turno “quando ti arrabbi diventi più bella”. E Valentina bella lo era davvero.
Non era una gabbia dorata la sua, benché le servissero i pasti e la colmassero di attenzioni. Non si è accorta che l’impero di cui era stata Signora si avviava al declino, se è vero che le avevano concesso la comodità di agi maggiori. Una libertà che aveva potuto apprezzare solo in parte, vista l’artrosi che l’affliggeva.
Poi un’insufficienza renale ha compromesso il suo stato di salute. Se n’è andata nel sonno, che mani pietose hanno fatto calare su di lei, sulla sua morbida pelliccia rossa. Chissà se finalmente ha ritrovato la savana nel nulla sconfinato in cui scorrazzano le anime che furono “prigioniere” Valentina, tra le ultime tigri dello zoo di Napoli?

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Un esercizio di fantasia

Il braciere era una scatola di latta piena di carbonelle. Era posto all’interno di una cassa di legno, chiusa nella parte superiore con assicelle accostate.
Il manico di un cucchiaio, annerito dall’uso, sbucava dalla cenere. Con il guscio si raspava la coltre soffice e bianca e si scoprivano minuscoli crateri, che brillavano di arancio vivo.
Incantava la faccia di quella luna ravvivata, e poi la si nascondeva con i piedi che giocavano sulle assicelle, passando dal tepore del legno al fiato incandescente del vuoto.
Il freddo si incuneava sulla convessità liscia del mandarino stretto tra le mani. Sotto l’unghia si raccoglieva l’aspro filamentoso, mentre il polpastrello indugiava sul ruvido granuloso del risvolto, quando si sminuzzava la buccia, per farla precipitare nell’abisso e profumare l’inferno.
La scorzetta si attaccava sulle dita e i suoi bordi disegnavano continenti, isole, arcipelaghi.
Scaldarsi era un esercizio di fantasia.

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Mi portarono a pescare

C’erano mattine felici per il trambusto che spezzava la monotonia delle giornate di estate. I grandi tornavano da mare e tutti si affollavano intorno al furgone. Era andata bene, era andata male. Esibivano i pesci, mentre i più giovani rimettevano a posto le coffe e gli altri strumenti, e le zie si consultavano, da un balcone all’altro, decretando per ciascuna preda quale fosse la fine migliore, il destino più saporito.

Una volta mi portarono a pescare. Di notte. Ero così eccitato. Poi non appena la barca fu al largo, e incominciarono a tirare le coffe, il beccheggio mi vinse. Fui sorpreso dalla nausea ed esaurii di fronte al consesso maschile la mia misera resistenza di bambino. Trascorsi il resto della notte nella stiva, steso a pancia in su, nello scorno di quella culla buia. Cercai di assopirmi per vincere il disgusto. Non ne fui capace. La vita era incredibilmente bella e ingiusta, così come essa sempre ci appare quando stiamo male. Sentivo i rumori, le voci, le risate e le battute, tutti i suoni di quell’avventura dalla quale la mia debolezza mi escludeva.

La mia prima e unica pesca notturna vive però ancora nell’immaginazione, sopravvive al sollievo con cui rimisi il piede a terra, al fastidio di dover essere sbeffeggiato, o peggio ancora, consolato per la mia inattitudine.

Quella volta mi portarono a pescare, e da allora non faccio altro che portarli a pescare con me.

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